Nonna Sara


Forse un po’ a chiunque, prima o poi sarà sopraggiunta la curiosità di ricercare le sue radici. Tracce attraverso cui identificarsi, a volte riconoscersi o ritrovare  conferme della propria identità.

Forse per un motivo puramente empatico o per  affinità col personaggio, provo un’attrattiva speciale verso questa capostipite, conosciuta appena attraverso i racconti, al punto che la mia attenzione, curiosità e sicuramente affetto sono stati da sempre carpiti da lei,  questa mia bisnonna paterna, vissuta a cavallo tra l’ultima metà dell’ottocento e il novecento.

 

Le uniche tracce della sua storia sono state tramandate attraverso i racconti di mio padre e dei miei zii. Presso di loro prevaleva la descrizione di un’anziana abbastanza severa e intransigente. Lei che da vecchia non sopportava le monellerie e il disturbo provocato dal  frastuono dei nipoti. Spesso, a causa della semplice vivacità o di piccoli dispetti subiti da parte di quelle pesti, finiva per accusarli  ai  rispettivi genitori, che in genere  non gliela facevano passare liscia.

 

Giudicare però una persona umana, per di più trapassata, sulla base di indizi caratteriali, ma non tali da pregiudicarne l’integrità  d’animo e di spirito, sarebbe veramente ingiusto, se insieme al carattere,  non vedessimo la sua dignità e il coraggio con cui si è saputa confrontare nelle prove della sua vita.

 

All’epoca in cui era giovane, già mamma di tre bambini: “Puddu” (Giuseppe) “Turi” (Salvatore) e “Raziu” (Orazio) all’età di circa ventiquattro anni, rimase vedova. Suo marito “Janu”, fu stroncato, ancora giovane, da un’affezione polmonare che al giorno d’oggi sarebbe curabilissima.

 

All’età di appena quattordici anni, “Puddu” pensò di cercare un riscatto a quella difficile situazione familiare. Decise di emigrare in America e siccome non era maggiorenne, un conoscente di fiducia, un certo sig. Arcidiacono fece per lui da  garante nel viaggio in nave.

In seguito a questa avventurosa esperienza, dopo un po’ di tempo e successivamente per molti anni, lavorò presso la Ford negli Stati Uniti d’Americana.

Con i suoi risparmi che spediva alla famiglia, mamma Sara poté acquistare il terreno, su cui in seguito “Turi”, diventato adulto, avrebbe  costruito la casa di abitazione, per la propria famiglia e per la madre, mentre  su un’altra porzione del terreno, sarebbe sorta anche la casa di “Raziu”.

 

Si dice che nonna Sara, un po’ per la sua indole, in parte per le difficoltà incontrate lungo la sua vita, avesse un carattere non sempre docile, o forse così si tendeva a dipingerla, specie da quanti ebbero la possibilità di conoscerla soltanto quand’era logorata dagli anni. A lei  si vuol fare addirittura  risalire l’origine del  soprannome, attribuitole e in seguito tramandato anche alla sua discendenza.

 

Tutto nasce da una storiella che sembra a metà tra  realtà e  fantasia. Sara da giovane si trovava davanti all’uscio di casa, dove c’era una bella pergola carica d’uva. Uno sconosciuto che passava le chiese forse uno di quei grappoli, ma non si sa erché, pare che  lei glielo abbia negato. Deluso l’uomo si ritrasse, pur  senza nascondere  il proprio risentimento, esclamò infatti  con tono di critica: “ Siti bidditta, ma siti cani!” (siete carina, ma ingenerosa !). Si racconta che da quel momento in poi il suo soprannome fu: “cani bidditta”.

 

Quando nonna Sara raccontava del suo sposo, lo descriveva di bella presenza e di alta statura, mentre lei era  di carnagione molto chiara. A pensarci bene, una coppia piuttosto insolita tra la popolazione sicula di quell’epoca. A lei, più che del proprio matrimonio, piaceva raccontare un particolare romantico: di quando, entrambi in carrozza, venivano riaccompagnati ognuno a casa propria, dopo avere compiuto la “promessa” di matrimonio (in dialetto “I loggi”).

 

A quei tempi i dialoghi tra fidanzati erano molto essenziali, anche perché la cultura non concedeva ai futuri sposi, occasioni per frequentarsi come accade adesso. Persino tra marito e moglie era consueto un certo distacco e ci si dava del “voi”. Per qualche attimo ancora sarebbero rimasti uno a fianco all’altra, poi lei sarebbe scesa. In quell’attimo Janu, rivolgendosi a Sara, confidò a lei un desiderio,  disse: “Iù, quasi quasi, ci dicissi o cucchièri di cacciari!” (Sarei quasi tentato di dire al cocchiere di proseguire … ) e Sara capì benissimo il senso: Janu in quel momento stava esprimendo il desiderio di fuggire subito con lei.

 

Questi cari ricordi di una storia durata poco, ma intensa come un sogno, nitidi e indelebili fino agli ultimi anni della sua esistenza,  rimanevano quasi incontaminati dagli altri accadimenti successivi a quella perdita, che avrebbe segnato in seguito la sua vita. Erano il suo piccolo tesoro.

 

L’800 volgeva al termine, Puddu si trovava già in America e il secondogenito Turi, a soli nove anni, era diventato il maschio più “anziano “ della famiglia. Sara da sola non ce la faceva a tirare avanti, fu la necessità che la costrinse  malvolentieri  a trovare un lavoro per suo figlio, benché non ancora cresciuto. Iniziò l’esperienza come manovale muratore, un lavoro che richiede parecchia forza fisica, ma ancora più pesante sarebbe stato, se rapportato a quell’epoca priva di tecnologia e considerando che l’operaio era ancora un  gracile bimbetto.

 

L’esperienza ebbe inizio, ma i problemi non si fecero attendere. Il suo “mastro” non voleva saperne, esigeva che il ragazzino desse “il massimo”, come se fosse più grande della sua età. Capitò che una sera il bambino tornò a casa piangendo.  Il capomastro lo aveva picchiato.  Non era soddisfatto delle sue capacità…

 

Per mamma Sara che portava dentro tutta la rabbia e l’amarezza verso un destino duro e crudele, quella violenza gratuita contro il suo bambino, già orfano di padre, le sembrò un affronto, quasi un ulteriore sfregio, una  gratuita e vile cattiveria. Il suo profondo sdegno si tradusse in impeto, che  diventò coraggio, quello che ha  una madre quando deve difendere il proprio cucciolo. Non fece passare la sera e quando immaginò che “u mastru” fosse nel suo solito ritrovo, a giocare a carte, andò a cercarlo. Lo riconobbe da dietro, lo avvicinò  senza farsi notare, alle  spalle e prima che questi si accorgesse di cosa stava per succedere, gli si avventò mordendolo con violenza ad un orecchio.

 

Spaventato e dolorante egli tentò di capire, ma lei incalzante,  mortificandolo ancora di fronte ai presenti, lo gelò con un  minaccioso avvertimento,  più di quanto non avesse fatto prima aggredendolo: “Si v’arrisicati a tuccari a mo figghiu, ni vostra mugheri vi ci fazzu turnari   stisu supra a na scala!” “Se vi azzarderete a toccare mio figlio, da vostra moglie vi  farò giungere disteso su di una scala”

(scala intesa come lettiga).

 

Anche se il suo tempo non si è potuto incontrare col mio,  continuo a sentire prossimo a me lo spirito temerario e tenace di questa nonna, la sua figura continuerà sempre ad affascinarmi ed emozionarmi.

 



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