Il cuore racconta di noi
Dopo la prima giovinezza il tempo scorre rapidamente e forse in tutti ogni tanto riemerge
la voglia di rallentare la sua inclemenza, che prima o poi ci farà invecchiare e
scricchiolare le ossa, sfocare i nostri entusiasmi e sbiadire i nostri sogni.
Ma tutto sommato non porta a niente opporre resistenza, tantomeno rimpiangere il tempo andato , dato che non si puù arrestare il passo
di questo inesorabile esattore che avanza.
Varcando la soglia del mezzo secolo, se la salute tiene, non vi sarebbe motivo per non sentirsi
ancora abbastanza giovani... almeno nello spirito.
Forse per questo può capitare di dimenticare la propria età anagrafica, rincorrendo obiettivi
che sarebbe meglio relegare al passato, perché se un tempo ciò non avrebbe comportato alcun problema
grazie a un motore biologico ancora relativamente nuovo, in quella fase non è più la stessa cosa.
Può sembrare un gioco abbastanza innocuo, può capitare a chiunque di esagerare e niente potrebbe lasciar
immaginare invece, con quanta facilità la nostra macchina perfetta potrebbe essere da un momento all'altro
irrimediabilmente compromessa e questo bellissimo sogno in prestito esserci addirittura revocato,
perché è davvero breve la distanza che può intercorrere tra la morte e la vita,
proprio nell'attimo in cui siamo "in corsa", mentre ci crediamo quasi "invincibili".
Esiste a quanto pare una relazione abbastanza stretta tra il ritmo di vita che conduciamo, inseguendo obiettivi non sempre della nostra portata
e le pulsazioni del cuore. Questo piccolo e fedele motore, sensibile alle accelerazioni o ai capricci della nostra mente
e allo stesso modo ne può riprodurre i conflitti, le incongruenze o il disordine. Un organo che in pratica
non si comporta come un semplice muscolo preposto a una specifica funzione meccanica,
perché attimo dopo attimo silenziosamente, con la precisione di un mimo disegna e descrive fedelmente
l'andamento della nostra vita.
A fine Giugno un piacevole caldo preannunciava l'estate, era il pomeriggio di un giorno lavorativo
come tanti, diverso dagli altri soltanto perché avrei svolto il turno serale.
Al di la di una calma apparente, si stava consumando in me da qualche tempo un dissidio irrisolto, una lotta
lacerante tra istinto e ragione, il primo che come un cavallo imbizzarrito si voleva contrapporre alle regole
e la razionalità che a sua volta lottava per frenarne l'impeto.
Sdraiato sul letto per rilassarmi prima di uscire, iniziai ad avvertire un fastidio al petto e alla
bocca dello stomaco. Era un tumulto di palpitazioni potenti, continue e irregolari. Il cuore aveva cominciato
a pulsare disordinatamente, a un tratto si fermava, poi ripartiva accelerando e subito dopo faceva
un'altra pausa, con ritmo lento e veloce, senza più regole, senza ritegno. Mi resi conto di come
questi sintomi fossero piuttosto insoliti per me, sinceramente mi preoccuparono, erano molto diversi
dalle aritmie che di tanto in tanto capitano un po' a tutti, quelle infatti durano qualche secondo
e poi passano, senza destare paura alcuna. Quegli impulsi invece erano intensi, continui e molto irregolari.
Un po' di ansia fu inevitabile, ma forse confidando nell'ottimismo od incoscienza racchiusi in
quella frase che ogni tanto sentivo pronunciare a mia nonna, nelle rare occasioni in cui avesse avuto
un leggero disturbo di salute, tra me e me come avrebbe detto lei, continuavo a ripetermi: "ora mi passa!".
Mi alzai dal letto e provai a misurare i valori della pressione arteriosa. Sembravano normali.
Le mie conoscenze in materia a quel punto non arrivavano oltre, sperai soltanto che non fosse nulla di grave.
A parte questo "tam-tam" disordinato dentro il petto, fisicamente mi sentivo in forma, per cui
non mi lasciai abbattere, facendo finta che fosse un problema da poco, con l'ostinazione di un mulo,
badando più alle puntualità che al mio malessere, montai in macchina e poco dopo mi trovai sul posto di lavoro.
Senza dare comunque troppo risalto all'accaduto, confidai il problema a un mio collega che al
contrario di me ne comprese l'entità e si preoccupò, riconoscendo l'urgenza immediata di accompagnarmi
al pronto soccorso.
Visitato in una saletta, rimasi parcheggiato per ore con una flebo che avrebbe dovuto risolvere
il mio problema, ma per tutto il tempo il mio stato non migliorò affatto. Ero insofferente e agitato,
mi comportavo come se fossi un visitatore casuale e non un paziente, non stavo neanche sdraiato ma seduto
a un angolo del lettino, con una buona dose di incoscienza e contro ogni logica, insistevo nel voler
essere dimesso. Il mio collega continuava a presenziare accanto a me invitandomi alla calma,
mi sentivo quasi in colpa a quel punto per avergli condizionato la serata. Lui fu molto disponibile,
voleva restare forse fino a vedermi riprendere, o quantomeno mostrare segni di miglioramento.
Arrivò la specialista del reparto per comunicarmi la necessità di un ricovero, illustrando il
quadro clinico, l'importanza e l'urgenza del mio problema. La definizione che diede al disturbo fu
"aritmia atriale". Mi spiegò in che modo la cavità superiore del cuore partecipa al pompaggio
del sangue, spingendolo nella cavità ventricolare, che a sua volta lo manda in circolo. L'aritmia
in questione deve essere corretta in breve tempo, perché il rischio che si corre in presenza
di pulsazioni disordinate, è che quella porzione di sangue che ristagna dentro il ventricolo si
coaguli, dando luogo a dei trombi che andando in circolo, possano causare gravi danni neurologici.
Smisi immediatamente di farneticare coltivando l'idea di voler andare a casa e mi resi conto invece
dell'impellenza del problema che mi riguardava così da vicino, perché da quel momento la mia vita era
come sospesa a un filo e non c'era tanto tempo da perdere. La specialista, dal fare rassicurante,
mi spiegò che attraverso il primo farmaco iniettatomi non si era visto alcun risultato, per cui
bisognava procedere con una mossa risolutiva per rimettere in sesto il mio cuore matto, tramite
la cosiddetta "cardioversione farmacologica".
Spostato in un' altra sala, mi fu praticata una leggera anestesia, poco dopo compresi
il perché e dovetti anche raccogliere tutto il coraggio che avevo, quando vidi l'infermiera, assistita dalla
specialista, presentarsi con un ago delle dimensioni della ricarica di una biro...
Era necessario un passaggio così ampio per iniettare in vena quel farmaco tanto denso e viscoso, ributtante solo a vedersi, simile
al sapone liquido: il "Cordarone".
Venni a sapere in seguito che erano passate le 23 quando il mio collega lasciò la degenza, anche perché a quel punto
non sarei stato abbastanza lucido per potermi accorgere di quanto accadesse intorno a me.
Mentre quella roba saponosa passava, l'anestetico mi aiutò a dormire, attutendo il fastidio,
fino all'alba, quando ripresi coscienza.
Non fu soltanto la luce notturna ancora accesa o l'odore pungente di lavanderia nelle lenzuola,
a ricordarmi che il posto in cui mi trovavo non era il letto di casa, non ero infatti da solo in quella camera, ma con diversi altri pazienti,
sebbene cominciassi ad avvertire quel posto quasi familiare, mentre gli ultimi rimasugli di farmaco
ancora scendevano lentamente attraverso il tubicino, ma l'incubo si era ormai dissolto e il mio cuore
era tornato a pulsare col suo ritmo impercettibile di sempre.
L'infermiera staccò "la biro" dal mio braccio e al suo posto applicò un cerotto e un tampone. In giro,
quà e la macchie di sangue descrivevano quello che era ormai passato.
Tirai un sospiro di sollievo e in quel preciso istante provai la sensazione di un sopravvissuto.