Bucce d'arancia
Settimanalmente, quando ormai nonna Nella non era più in
grado di muoversi coi mezzi per fare la spola, io e mio
fratello,
a turno, ci eravamo assunti il suo compito, quello di
consegnare il cambio biancheria. Il pullman per Catania
aveva una
fermata non molto distante dalla nostra casa, quasi sempre
in quella corsa viaggiavano pochi passeggeri e io potevo
sedere ai primi posti.
L'autista era quasi sempre il solito. Vivace e cordiale, un
tipo di quelli che appena ti riconoscono, ti raccattano
al volo, pure se ti trovi fuori dalla fermata. Non troppo
osservante del divieto esposto in bella vista,
se capitava, mentre era alla guida, amava scambiare due
chiacchere coi conoscenti, chiamando per nome quelli
abituali. Protettivo con ragazzini e anziani, era galante con le
belle donne.
Viaggiando, il tempo scorreva in un attimo e il tragitto di
circa 26 chilometri, forse per via delle rare fermate,
sembrava assai più breve. Quando si raggiungeva il
litorale di Catania, l'odore della vinpelle dei sedili si
mescolava
con quello frizzante della salsedine, delle alghe sul
bagnasciuga della scogliera e degli scarti di pesce
abbandonati dai rigattieri.
Dopo un breve tratto costiero,
il percorso si addentra nella città, attraverso un lungo viale
rettilineo, che ad ogni crocevia importante cambia nome e
quando da pianeggiante si presentava in leggera salita,
capivo
che era quasi il momento di scendere, bisognava alzarsi e
chiedere la fermata al conducente con la parola "prossima!".
Scendevo in "Piazza s. Maria del Gesù", nelle vicinanze
dell' Ospedale "Garibaldi", dove ero diretto.
Non entravo dall'ingresso principale, ma attraverso un
grande cortile laterale, pavimentato in basalto grigio,
abbellito da aiuole, dentro cui crescevano eleganti
alberelli di conifere aromatiche.
Si saliva per una scalinata in lastroni di pietra grigia e
dopo alcuni passaggi ci si addentrava attraverso gradinate sempre
più strette e fatiscenti. L'ultimo tratto in discesa
sembrava condurre in una specie di pozzo, sempre più in
basso.
Un luogo quasi appositamente occultato al mondo esterno e tra i
plessi dello stesso Presidio Ospedaliero. Persino quegli
scalini in cemento, lisi dal transito umano e dal tempo,
trasudavano logorio e stanchezza. L'ultima rampa finiva in
un minuscolo cortile, a un angolo bucce di arancia
rattrappite, stese ad essiccare al sole sopra fili di
metallo, un punto di colore, di fianco all'ultimo passamano.
Un bugigattolo fungeva da sala d'attesa per i visitatori e
da presidio logistico del reparto, era anche deposito
volante
per le lenzuola pulite o da lavare, in quel tugurio
arrivavano e si depositavano anche i cestoni dei panini per
la distribuzione
giornaliera. Forse per quel motivo in quello spazio
affollato di ogni cosa, si respirava sempre un tanfo
indefinito,
mescolato all'odore di pane raffermo.
Dentro questa sorta di bunker, in cui con pacata lentezza
entravano ed uscivano i vari inservienti,
una figura rotondetta, ma operosa e solare, vestita con una
tunica bianca, dispensava a chiunque l'identico bonario
sorriso,
sempre sorridendo dava ordini a tutti, con quel modo di
fare dirigeva il reparto, era suor Lucia.
Sul fondo di questo piccolo locale, una robusta porta in
ferro creava la separazione con un grande cortile interno
chiuso tra fabbricati, disposto su piani scalari e che
andava in giù. Dalla finestrella sulla porta a mo' di
spioncino, si presentava
una visuale per certi versi molto simile a quella che si sarebbe potuta
osservare dentro un penitenziario.
Non vi erano però detenuti oltre quella feritoia, ma come
in un terribile girone dantesco, vi si scorgevano povere smorfie
vaganti, seminude e dai capelli rasati a zero.
Relitti umani, a volte immobili, dallo sguardo perso nel vuoto,
oppure catturati dentro movimenti ripetitivi, frasi sconnesse
sempre uguali. Prigionieri di un incubo perenne, come il suono
di un disco inceppato sullo stessa strofa,
sullo stesso ritornello.
Qualche ombra ogni tanto, accorgendosi di una presenza nuova
dietro quella porta, si avvicinava implorante allo spioncino
per elemosinare furtivamente qualche sigaretta, poi spariva.
Una moltitudine di angeli sfrattati dal loro paradiso, rinchiusi
dentro quella bolgia di sgomento, manifestazione palese del disamore di Dio, maschere grigie dallo
spirito evaporato e assente. L'unico colore era in quelle bucce
d'arancia accartocciate al sole.